Lo smart working è destinato a durare?
Con la pandemia sullo sfondo e il ritorno in ufficio deciso da molte aziende, è giusto chiedersi se lo smart working ha un futuro non come alternativa al lavoro tradizionale, ma soluzione in crescita a numerosi problemi di chi lavora, come la mancanza di flessibilità e di conciliazione tra vita personale e professionale.
Per rispondere a questa domanda, Radical HR, piattaforma edtech italiana dedicata a formazione continua e networking per i professionisti HR, ha chiesto a 600 responsabili delle risorse umane provenienti da 19 settori diversi di analizzare qual è lo stato della smart working nelle aziende in cui lavorano.
I risultati della ricerca sono molto più complessi di quanto si pensi, e riguardano non solo la motivi economici e culturali, ma anche le conseguenze sul rapporto tra dipendente e azienda.
Ecco quindi le statistiche più interessanti della seconda edizione della ricerca sullo smart working realizzata dall’Osservatorio sul futuro del lavoro di Radical HR.
I numeri dello smart working in Italia
- Lo smart working vince al Nord, dove le aziende che lo promuovono sono il 75,9%. Al Sud, il dato scende al 37,5%.
- In tutta Italia, le aziende credono nello smart working a prescindere dai suoi effetti sulla produttività: il 70,1% non li ha ancora misurati. Il che è un peccato, perché il 92% di chi ha misurato l’impatto dello smart working ha registrato un aumento di produttività.
- Un quarto delle aziende analizzate lasciano la massima libertà al personale nella scelta delle giornate in cui fare smart working. In generale, la scelta più diffusa è quella di concedere due giorni su cinque di smart working.
- Il 13,5% delle aziende non concede mai lo smart working, un dato in leggero calo rispetto al 2021, quando erano il 14,1%.
- La metà delle aziende analizzate hanno già sviluppato un regolamento sullo smart working, e il 22% ci sta lavorando. Ad avere già una policy precisa sono soprattutto le aziende più grandi (sopra i mille dipendenti), mentre nessuna delle aziende del Sud coinvolte della ricerca ha già sviluppato una policy per lo smart working.
- Secondo il per il 57,8% delle esperte e degli esperti in HR lo smart working rende difficile mantenere l’engagement con le persone, mentre il 56,6% trova difficile rendere attrattiva l’azienda e trattenere i dipendenti.
- Per quasi la metà del campione, lo smart working complica la trasmissione della cultura aziendale.
Cosa ci dicono i dati sullo smart working in Italia oggi?
“I dati della nostra ricerca, che tuttavia tracciano i contorni di un Paese ancora molto diviso: da un lato le aziende del Nord credono nello smart working e hanno capito che per farlo funzionare è necessario regolamentarlo e gestirlo”, spiega Alessandro Rimassa, CEO & Founder Radical HR.
“Ma, a sorpresa, la spaccatura si ferma qui: perché le dimensioni delle aziende così come il loro settore incidono poco nelle scelte legate allo smart working”, aggiunge Rimassa, che riconosce anche che in tutta Italia lo smart working è generalmente una misura richiesta dal personale.
“Benvenuto smart working, quindi, ma occhio alle insidie, che sono dietro l’angolo”, precisa Rimassa. “La nostra ricerca evidenzia infatti che le aziende faticano a mantenere alto l’engagement delle risorse che fanno smart working e a trasmettere cultura e valori aziendali”, aggiunge.
In conclusione, lo smart working in Italia sta bene, ma potrebbe stare meglio. Per le aziende che ancora faticano ad accettarlo, il quiet quitting potrebbe smettere di essere un’eccezione e diventare la normalità.