«Quando metto nero su bianco tutte le cose che ho fatto dall’inizio della pandemia – proposto e pubblicato un libro, istituito un premio, condotto due podcast – mi sento stravolta», confessa la giornalista Anna Codrea-Rado. «L’unica cosa che mi stravolge ancora di più è la sensazione di non aver fatto niente di niente».
A questa sensazione Codrea-Rado ha cercato di dare un nome, trovando nel vecchio tweet di un famoso designer e youtuber californiano l’espressione perfetta: dismorfia produttiva. Lo youtuber in questione è Ben Uyeda, uno dei più conosciuti tra gli appassionati di fai-da-te, e nel 2020 aveva scritto: «Credo che la dismorfia produttiva dovrebbe essere presa sul serio». Due anni dopo, la dismorfia produttiva non è entrata nei manuali degli psicologi di mezzo mondo, ma la produttività continua a essere al centro dei nostri pensieri, e non sempre in maniera positiva.
Come si manifesta la dismorfia produttiva?
La dismorfia produttiva riguarda l’incapacità di riconoscere il proprio successo: ogni persona la sperimenta quindi in maniera unica e personale. Per esempio, una neolaureata in filosofia ha raccontato a Codrea-Rado di avere l’impressione che la sua laurea sia meno vera di quella di altre persone a causa della didattica a distanza. Lo stesso Uyeda ha ammesso di non essersi sentito soddisfatto dopo aver raggiunto un milione di follower su Youtube. «Pensavo solo a quello che
avrei dovuto fare dopo», racconta. «Era come se avessi preso una versione professionale del covid: non riuscivo più ad assaporare il gusto del successo».
Dopo aver consultato vari esperti, Codrea-Rado è arrivata alla conclusione che la dismorfia produttiva unisce in sé ansia, burnout e sindrome dell’impostore, mantenendo comunque la propria unicità.
Chi “soffre” di dismorfia produttiva infatti tende semplicemente a sottovalutare le proprie competenze, mentre chi convive con la sindrome dell’impostore si preoccupa costantemente di aver ingannato altre persone facendo credere di essere più intelligente o competente di quanto lo sia veramente.
La mancanza di soddisfazione nel raggiungere i propri obiettivi professionali è poi uno dei tre segnali principali di burnout (gli altri due sono l’esaurimento emotivo e l’alienazione). «Succede perché i nostri corpi sono costantemente in modalità attacca-o-fuggi», spiega Amelia Nagoski, che insieme alla sorella Emily ha scritto un bestseller sull’argomento, riferendosi alla reazione neuronale fisiologica che gli animali hanno davanti al pericolo. «Se lo stress è cronico e persistente, il tuo campo visivo si restringe e non riesci ad avere una visione d’insieme della situazione in cui sei».
Per Jacinta M. Jiménez, psicologa e coach di leadership, «[raggiungere] grandi traguardi o vivere esperienze positive può metterci di buon umore per un po’ e farci sentire davvero bene, ma queste sensazioni possono sparire in fretta». Già negli anni Settanta infatti Brickman e Campbell, due psicologi statunitensi, avevano osservato che gli esseri umani tendono a mantenere un livello stabile di felicità nel corso della loro vita, indipendentemente dalla presenza di eventi positivi o negativi. Secondo i loro studi, è normale quindi che ogni persona abbia la sensazione di essere tornata casella di partenza poco dopo aver raggiunto l’ennesimo traguardo, pronta a rincorrere un obiettivo diverso inseguendo le stesse sensazioni che ha già provato.
3 modi per sconfiggere la dismorfia produttiva
Nonostante quindi esista un “livello” di soddisfazione al quale tutti tendiamo a tornare, è possibile trovare dei modi per sfuggire alla mentalità della produttività a-tutti-i-costi. Eccone alcuni:
1. Non avere paura di premere “pausa”
Negli anni Novanta, la psichiatra Nancy C. Andreasen ha coniato l’acronico REST (random episodic silent thought) per indicare l’insieme di libere associazioni di pensiero che il nostro cervello fa mentre ci rilassiamo. Per capire a fondo la loro importanza, Andreasen sta studiando il loro impatto su un piccolo gruppo di artisti, scienziati, matematici e professionisti di alto livello.
Per molti di loro «lasciare che i pensieri fluiscano liberamente è fondamentale per essere creativi», spiega la psichiatra al Washington Post. In altre parole, per essere davvero produttivi, riposare in è fondamentale.
Per questo, prova a inserire nella tua routine giornaliera delle vere pause, per esempio pranzando senza tenere il cellulare a portata di mano o facendoti la doccia senza musica: un po’ di silenzio non potrà che fare bene al tuo cervello.
2. Medita
Meditare potrà anche sembrarti l’ennesima casella da spuntare nella tua lista di cose da fare, ma questa pratica mette d’accordo moltissimo esperti per un motivo: fermarti, concentrarti sul tuo respiro e non pensare a niente è un ottimo modo per allontanarti dalla tua routine e permetterti di vedere le cose da un altro punto di vista: perché hai scelto di fare quello che stavi facendo fino a pochi secondi fa? Che cosa ti impedisce di farlo meglio? Che cosa faresti se non dovessi terminare quel progetto?
3. Esci dal tunnel
«Pensiamo che essere produttivi voglia dire fare ogni giorno una quantità di cose sempre superiore», spiega James Clear, autore del libro Atomic Habits. «Ma è una definizione sbagliata: essere produttivi vuol dire fare cose importanti in maniera costante».
Esci dal tunnel delle cose-da-fare e individua quelle che ti interessano davvero: sono loro a dare senso a ciò che fai, a ciò che pensi e a ciò che senti. «Tra tutte le cose che possono emozionarci o motivarci mentre lavoriamo, sentire di star facendo progressi in qualcosa che ha un profondo significato per noi è la più importante», scrivono i ricercatori Teresa M. Amabile e Steven J. Kramer su Harvard Business Review. «Più sentiamo di star facendo passi avanti, più tendiamo a essere creativi e produttivi sul lungo periodo», concludono.