Mentoring: come evitare che i bias rovinino il percorso

I bias inconsci possono influire anche sui percorsi di mentoring. Scopriamo perché e se c’è un modo di arginare questo fenomeno.
Mentoring

I benefici del fenomeno del mentoring nelle organizzazioni sono riconosciuti da diversi studi e da chi ha anni di esperienza del mondo del lavoro.
Tuttavia, i bias possono influire negativamente sulla relazione tra mentor e mentee. Scopriamo perché e se c’è un modo di arginare questo fenomeno.

Mentore: significato

La parola deriva per antonomasia da un personaggio dell’Odissea. Mentore è il nome di colui che aiuta e consiglia Telemaco, figlio di Ulisse, durante l’assenza del padre.
Si tratta quindi di una figura che solitamente non appartiene al proprio nucleo di origine, ma che viene scelta perché rappresenta un modello da seguire.
Una guida, dunque, qualcuno di saggio che può consigliare in momenti di difficoltà o indecisione per chi è giovane o inesperto.

Anche chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro o si trova in un momento delicato di crescita personale in azienda è portato, in maniera naturale, a cercare una figura che funga da modello e supporto.
Solitamente, il mentore ha una maggiore anzianità e ricopre un ruolo che il suo “protetto” ambisce a raggiungere in futuro. Verosimilmente ha vissuto in passato analoghe sfide e difficoltà.

Spesso il mentor, da parte sua, aiuta il mentee proprio perché gli ricorda se stesso agli inizi della carriera e desidera dargli consigli e strumenti.
Magari anche lui in passato ha ricevuto sostegno da una persona di riferimento, oppure desidera aiutare qualcun altro grazie alle competenze che ha perseguito con fatica e impegno.

Questo è un fenomeno che avviene in modo informale all’interno dei contesti organizzativi e porta a sinergie e scambi importanti.
Purtroppo è proprio la spontaneità dell’evento che rischia di creare alcune criticità.

I bias: cosa sono?

La mente umana lavora per schemi mentali inconsci che ci permettono di sopravvivere.
Gli scienziati hanno stimato che il cervello riceve intorno agli 11 miliardi di bit di informazioni al secondo, di cui può rielaborare in modo conscio al massimo 200 bit.
È una risposta naturale, quindi, attuare una strategia inconscia per gestire i molteplici stimoli che riceviamo dal mondo esterno.

Questo accade anche quando ci relazioniamo con altri individui.
Il colore della pelle, il genere, il modo di vestire: sono tutti elementi che la nostra mente utilizza per “catalogare” con chi ci stiamo rapportando e creare un’aspettativa sul loro comportamento, generalmente basata su stereotipi.
Si originano così i bias, distorsioni della realtà che si fondano su pregiudizi. Inesatti, ma allo stesso tempo difficili da estirpare. Se non sono riconosciuti e compresi, questi portano a preconcetti sbagliati e a volte pericolosi.

Questo è anche il motivo per cui siamo solitamente portati a legarci con chi ci sembra più simile a noi. Inconsciamente e erroneamente tendiamo a credere che non costituirà una minaccia. Si può dire che “simile attrae simile”.

I bias nel mentoring 

Questo accade anche nel processo di mentoring. I mentor sono più portati ad aiutare coloro che sentono più affini.
Qui nasce la criticità: la maggior parte di coloro che ricoprono ruoli apicali nel mondo del lavoro, quindi potenziali mentori, sono uomini bianchi.

Alcuni dati

Ad esempio in Europa, secondo il Gender Diversity Index 2021 le donne sono presenti a livello dirigenziale solo nel 19% delle aziende e solo il 7% sono CEO.
In Italia la situazione è peggiore rispetto alla media europea, in quanto la presenza femminile a livello dirigenziale nel nostro Paese è ferma al 17%. Solo il 6% delle aziende ha un Amministratore Delegato donna.

Non è difficile capire che, essendo la maggior parte dei leader uomini bianchi, questi saranno istintivamente portati a supportare nella carriera altri uomini bianchi.
Bisogna specificare che i bias sono inconsci e questi meccanismi non avvengono solitamente in mala fede.

mentor senior

I bias del mentee

Inoltre, i bias non sono prerogativa esclusiva del mentor.
Un mentee può avere pregiudizi nei confronti di una figura guida che non rispecchia il suo “ideale”.
La storia di Stacy Blake-Beard è indicativa. Diventata a 29 anni professoressa presso la Harvard University’s Graduate School of Education, era la più giovane insegnante della facoltà, spesso più giovane dei suoi stessi studenti.
Un giorno un dottorando venuto a discutere un progetto di ricerca, arrivato a colloquio ha esclamato: «Mi scusi, ma lei quanti anni ha?». Trovarsi di fronte a qualcuno che non corrisponde alle aspettative può portare il potenziale mentee a non fidarsi o a pensare che non sia competente.

I bias autoinflitti

La minaccia più insidiosa sta nel fatto che i bias possono anche essere autoinflitti.
Studi psicologici hanno rilevato che chi appartiene a un gruppo solitamente vittima di pregiudizi prova una pressione tale nel giudizio da condizionare la sua performance. Anche il timore che il proprio potenziale mentore abbia dei preconcetti nei propri confronti rende difficile la creazione di una relazione di fiducia. Si tratta insomma di una “profezia che si autoavvera”.
Un meccanismo che mette in ulteriore svantaggio quelle categorie già tradizionalmente a rischio di esclusione nel mondo del lavoro.

Blake-Beard ha fatto tesoro della sua esperienza e ha pubblicato un volume dal titolo “Mentoring Diverse Leaders”.
Nel libro approfondisce come il mentoring sia fondamentale per i processi e gli obiettivi delle organizzazioni e come i bias possano essere ostacoli per queste interazioni di successo.

La criticità di questi meccanismi inconsci e automatici sta proprio nel fatto che si possono perdere occasioni preziose di crescita personale e di innovazione.
Un problema per le aziende, che sempre più stanno impegnando per costruire team inclusivi, equi e diversificati.

Una mentorship più inclusiva

In un mondo in cui l’inclusione e l’integrazione di determinate categorie è ancora un obiettivo da raggiungere, è dovere del diversity and inclusion management lavorare per riconoscere i pregiudizi inconsci all’interno del mondo del lavoro e guidare i propri collaboratori verso una crescita consapevole.

Imparare a riconoscere i bias

Una soluzione efficace adottata da alcune aziende, a partire dai colossi della Silicon Valley fino a importanti realtà italiane, è introdurre progetti specifici per la popolazione aziendale con lo scopo di sensibilizzare sul concetto di bias.
È necessaria, infatti, la consapevolezza dell’esistenza di pregiudizi inconsci. Essi esistono, sono automatici, ma si può imparare a gestirli.
Cambiare lo sguardo e variare le aspettative, o almeno provarci, è un grande passo per il cambiamento non solo nell’azienda, ma anche nella società intera.

Progetti specifici in azienda

Un’altra soluzione, anch’essa ugualmente valida, è organizzare all’interno dell’azienda specifici progetti di mentoring, fuori dalla rete informale dove questi spesso si sviluppano naturalmente.
Si tratta di percorsi “uno a uno” di scambio e approfondimento, dove a ogni mentor viene assegnato un mentee.
L’azienda si occuperà di assegnare i match ai volontari al programma, creando così terreno fertile per incontri che altrimenti non sarebbero avvenuti o sarebbero rimasti a un livello superficiale.
È importante che lo sviluppo del progetto sia seguito da consulenti esterni specializzati o da un Diversity Manager.

Il coordinatore del percorso potrà guidare il mentore in modo da non creare barriere legate a stereotipi o a una visione rigida della realtà.
È necessario che il mentore analizzi con empatia e comprensione il percorso del proprio mentee.
Non è utile che presenti soluzioni che avevano funzionato per se stesso in passato come verità assoluta, perché ognuno ha la propria storia.
È importante, inoltre, che faccia molte domande e approfondisca il problema che viene presentato in modo da essere certo di averlo completamente compreso.
Il mentor deve tenere a mente che la propria esperienza e conoscenza sono fondamentali nel percorso, ma vanno gestite in modo accurato.

A volte, infatti, il background può portare a sviluppare assunti validi per il mentor ma non per il percorso del mentee. 
Per esempio, nel caso di un neogenitore che si trova ad affrontare il delicato momento di conciliazione famiglia-lavoro, il mentore deve essere conscio che questo aspetto dell’esistenza è cambiato rispetto agli anni in cui lui ha costruito la propria famiglia.
Lo sforzo è proprio quello di leggere la complessità della realtà e capire le sfide del proprio mentee prima di condividere la propria prospettiva sul problema.
È sempre bene tenere a mente che il mentee affronta difficoltà e opportunità che sono calate nel contesto attuale. 

Mentoring reciproco

Il mentoring in questo senso non è solo un arricchimento per il mentee, ma può essere una grande fonte di ispirazione anche per il mentore, per allargare i propri orizzonti.

Infatti, se lo scambio è proficuo si può arrivare a considerare il reverse mentoring, dove i due partecipanti sono sullo stesso piano e possono scambiarsi le rispettive competenze generazionali.
Ad esempio, i membri più junior dell'organizzazione possono guidare i leader alla scoperta di temi come la tecnologia, l’innovazione, la diversity - tematiche in cui generalmente sono molto aggiornati. 

Può essere utile anche cambiare il proprio mentore ufficiale molto spesso per creare sempre nuovi incontri potenzialmente innovativi.

Empatia e consapevolezza

Combattere i bias sul lavoro è una battaglia molto complessa.
Tuttavia, più identifichiamo le aree del nostro business dove questi sono più presenti e più potremmo lavorare perché l’esclusione non accada più.

Il mentoring affrontato con attenzione alla diversity porta innovazione, cambiamento, attrae talenti e li mantiene nel tempo. È quindi fondamentale per il successo dell’organizzazione.

Infine, bisogna sempre ricordare che il mentoring è una relazione umana, e come tale deve essere considerata da entrambe le parti.
È sempre importante approcciarsi all’altro con empatia e consapevolezza.

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