Come sopravvivere a lavoro se hai una disabilità invisibile

Tantissime persone al mondo convivono con una disabilità invisibile. Ecco qualche consiglio per affrontare il mondo del lavoro se ne hai una.
Disabilità e remote working

«Vivo con l’ansia che la fortuna mi volti le spalle, di non riuscire più a lavorare o che la mia azienda finisca la pazienza e mi licenzi», racconta Rebecca Allen al Guardian.

Allen è una data analyst londinese e soffre di fibromialgia e della sindrome da ipermobilità articolare, due patologie che rendono ogni giorno di lavoro una lotta contro il dolore e la fatica. I suoi colleghi e i suoi superiori non lo sanno e spesso interpretano male le sue richieste di giorni di permesso, che sono scambiate per pigrizia o disinteresse verso il proprio lavoro.

Secondo l’OMS, più di un miliardo di persone al mondo convivono con una forma di disabilità: alcune di queste, come Allen, hanno una disabilità invisibile, ovvero una patologia che non è sempre percepibile dall’esterno. Altri esempi di disabilità invisibili sono l’endometriosi, il lupus, il diabete, l’artrite, la depressione, ma anche l’autismo e la sindrome di Asperger. 

Come (e se) parlare della tua disabilità invisibile a lavoro

«Ho scoperto che esiste una mancanza di comprensione assoluta nel mondo del lavoro, come nel mondo in generale, di cosa sia una disabilità invisibile: ci si chiede se siano vere o no, se possano esistere davvero», spiega Allen. A questa diffidenza si aggiungono i pregiudizi: secondo il Disability Perception Gap dell’organizzazione benefica inglese Scope, una persona su tre nel Regno Unito crede che le persone disabili siano meno produttive del resto dei colleghi, una falsa convinzione che ha conseguenze negative sull’ambiente di lavoro. Inoltre, nonostante esistano leggi che tutelano e supportano i lavoratori e le lavoratrici disabili, per molti di loro spesso è difficile dimostrare di non essere stati assunti o di non aver ricevuto una promozione a causa della propria disabilità.

Per questi motivi, molte persone che hanno una disabilità invisibile scelgono di non parlare della loro patologia a lavoro. Altre invece vorrebbero, ma non sanno come iniziare una conversazione sincera con superiori e colleghi. Ecco quindi qualche consiglio per rompere il ghiaccio in caso ti trovassi in questa situazione:

Ricorda che è una tua scelta

Parlare di come ti senti o cosa provi mentre sei in ufficio non è un obbligo: la tua azienda, infatti, non è la tua famiglia e hai diritto a difendere la tua privacy e la tua vita personale. Se decidi di farlo, però, potresti essere d’aiuto per molte altre persone nella tua stessa situazione e cambiare in meglio la cultura della tua azienda.

Cerca segnali di supporto

Ci sono molti modi in cui le aziende segnalano a candidati e dipendenti il loro impegno a favore dell’inclusione e dell’accessibilità. Guardati intorno e controlla se esistono infrastrutture e servizi che rendono l’ufficio accessibile. Leggi sul sito della tua azienda quali sono i loro programmi a tema diversità, equità e inclusione e se esistono percorsi di mentoring o ERG (Employee Resource Groups), gruppi organizzati in maniera volontaria dai dipendenti per dare e ricevere supporto.

Scegli a chi dirlo

La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici scelgono di parlare della propria disabilità invisibile al proprio manager o a un diretto superiore. È una scelta che offre molti vantaggi, dato che si tratta delle persone che possono fornire gli strumenti necessari per ridurre il carico di lavoro o stabilire orari e modalità più flessibili. Alle volte, però, non si ha di fronte una persona aperta al dialogo o particolarmente sensibile nei confronti dell’inclusività. Per questo, un’alternativa valida può essere anche confidarsi con un collega. Avere un alleato (o anche più di uno) può infatti diminuire il senso di solitudine e la sensazione di essere costantemente giudicati per i propri comportamenti.

Scegli come dirlo

Se hai deciso di parlarne con un tuo superiore, puoi scegliere se farlo faccia a faccia o per mail: se temi la sua reazione, mettere per iscritto ciò che dici ed eventualmente anche le tue richieste è la strategia migliore per evitare conseguenze spiacevoli. Con i colleghi è meglio invece adottare un approccio più informale e parlare in un momento di pausa. Anche con loro, metti bene in chiaro se preferisci che questa informazione rimanga tra voi o no.

Disabilità invisibili e lavoro da remoto: una coppia vincente

Se hai una disabilità invisibile, è tuo diritto scegliere di parlarne con i tuoi tempi o di non farlo affatto. In caso decidessi di non dirlo a nessuno, puoi sempre optare per qualche altra strategia per migliorare la tua qualità di vita: una di queste è sicuramente il lavoro da remoto.

«Prima della pandemia, molte persone disabili (me inclusa) faticavano a ricevere il permesso di lavorare da casa», spiega alla BBC Grace, una lavoratrice inglese che soffre della sindrome di Ehlers-Danlos. «Anche quando ci riuscivamo, i colleghi spesso li consideravano dei giorni di ferie o non credevano che stessimo davvero lavorando. In generale, tuttavia, avere più controllo sul proprio ambiente di lavoro è positivo e la pandemia ha dimostrato che ciò non avviene a discapito della produttività».

La pandemia ha infatti avuto il grande pregio di favorire il dialogo sulla flessibilità e sulla salute mentale, due temi che ormai sono cari a tutti, ma che sono di fondamentale importanza per le persone disabili. «La questione del cosa-hai-bisogno-per-lavorare-da-casa ha spinto le persone con disabilità o malattie croniche a chiedere sedie e scrivanie ergonomiche e orari flessibili, due necessità che non erano sul tavolo prima della pandemia», spiega Rachael Mole, amministratrice delegata di SIC, un’organizzazione non profit che aiuta le persone disabili a trovare aziende inclusive.

Negli ultimi mesi, però, molte aziende hanno puntato tutto sul ritorno in ufficio o sul lavoro ibrido, un grande passo indietro per chi aveva finalmente trovato la propria dimensione grazie al lavoro da remoto. «È ora di ripensare completamente il nostro approccio al lavoro», riassume Cat Mitchell, ricercatore dell’Università di Derby interessato al rapporto tra disabilità e lavoro. «Non siamo robot che possono essere costantemente produttivi dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio, ogni giorno, cinque giorni a settimana. Adottare modalità di lavoro che rispondono alle necessità delle persone disabili è positivo per tutti».


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